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Samuel Beckett e Alberto Giacometti nel 1961. Foto di Georges Pierre © Fondation Giacometti
Alberto Giacometti stava seduto sulla terrazza del caffè Flore o della Coupole a Montparnasse e si accorse che un tale lo guardava. Aveva un viso magro e lo sguardo attonito e atterrito. Ma Giacometti stava leggendo il giornale e dopo quell’attimo di distrazione, ricominciò a leggere.
A Parigi si vive molto nei caffè e non è una abitudine riservata agli artisti. Chiunque abbia del tempo va al caffè. In Italia si è persa l’abitudine, o si sono persi i caffè. Ma è meraviglioso stare seduti fra la gente in un bar confortevole, d’estate o d’inverno, bevendo qualcosa, chiaccherando con una amica o, ancora meglio, guardando la gente che passa. Uno dei successi di Capri sta nel fatto che la sua celebre piazzetta, così piccola, ha quattro caffè. E tutti si guardano, guardando gli altri. Perché la gente si siede e si alza in continuazione, arriva e se ne va. E quando qualcuno che piace torna a farsi vedere, è meraviglioso; mentre è straziante non vedere più chi vorresti o volevi rivedere. E chi sta seduto con quel peso ha una grande infelicità.
Poi Giacometti finì di leggere e di nuovo si guardò in giro e di nuovo incontrò lo sguardo dell’uomo che lo guardava. I due si salutarono. Ma entrambi decisero che erano troppo pigri per approfondire, e restarono seduti dell’altro tempo.
La gente andava e veniva, qualcuno ormai, dopo aver bevuto i suoi due caffè ordinava un Kir, una bevanda inebriante fatta con vino bianco gelato e crema di cassis. Il Kir poteva preludere a un piatto di formaggio e uova sode e Giacometti, che ne mangiava anche dieci, forse cominciò a farsi venir fame quando uno di quei due uomini che si sbirciavano si sporse dalla propria seggiolina di vimini e disse all’altro: se non sbaglio, noi due ci conosciamo.
I due uomini, infatti, non si erano mossi per pura pigrizia, ma erano vicinissimi di sedia e quasi si toccavano. L’altro, sorridendo, rispose: sembra anche a me. Lei è Giacometti, lo scultore. Vero? Io sono Samuel Beckett, lo scrittore.
Giacometti strinse il fascio dei giornali come se fosse un mazzo di fiori che improvvisamente toglieva la vista al loro dialogo, li strapazzò come se volesse buttarli via, poi disse: ah, già. Be’, come va la vita?
Beckett non rispose a tono ma, dopo un lunghissimo silenzio, gli disse: io la sto cercando da molto tempo. Da molto tempo. E adesso il caso ci fa incontrare.
Giacometti, che sembrava imbarazzato e felice per questa rivelazione, cercò di avvicinare la propria sedia a quella dell’altro. Ma non c’era spazio e riuscì soltanto a incastrare le proprie gambe nel tavolino di Beckett. Il quale proseguì.
Metteranno in scena una mia commedia. Il titolo è: Aspettando Godot. Stanno diventando matti per la scenografia. A me non va bene niente.
Allora ho detto: ci vorrebbe Giacometti. Per me è l’ideale.
Ma io sono d’accordo, esclamò lo scultore. Cosa devo fare?
Un albero, fu la risposta. Il mio testo dice: strada di campagna con albero. È sera.
I due parlarono ancora un po’ quindi si salutarono. Poi Giacometti lesse la commedia e immaginò una scena assolutamente vuota ma con un albero striminzito. E basta.
Quando si ritrovarono Beckett guardò il progetto come se fosse una rivelazione.
Si trattava infatti di una cosa implume, disegnata al bui da qualcuno che aveva fretta di tornare nel letto. Un appunto. Ma quei leggerissimi fili di matita che partendo dalla terra cercavano, con il loro movimento, un po’ di vita, erano sufficienti. Erano, più che un albero, il fumo che si alza da una sigaretta quando brucia.
Al momento delle prove generali della commedia i due artisti si diedero appuntamento nella platea, deserta, di quel piccolo teatro parigino. Al buio nella sala, fumando accanitamente, Giacometti e Beckett osservavano il tecnico delle luci preparare la scena.
I due non parlavano ma stavano concentrati, ciascuno per la propria parte. Poi Giacometti disse: toglierei quel ramo. È di troppo. Tu cosa ne pensi?
Beckett proruppe in una specie di lamento di gioia. E confermò: era la sola cosa che ti volevo dire. Di togliere quel ramo. Adesso va benissimo.
No, disse Giacometti che nel frattempo si era rimesso a sedere. Dobbiamo stare attenti. In scena ci deve essere soltanto l’essenziale.
Non farmi fretta. Fammi pensare.
Passò altro tempo. Nessuno in sala, o sul palcoscenico, osava fiatare. Quando Giacometti si alzò aveva deciso. Attraversò il teatro, salì con un certo sforzo, dato che trascinava il piede ferito, in palcoscenico, si tolse quel relitto che chiamava impermeabile che finì per terra, tolse anche la giacca, poi salì su un praticabile e guardando da vicino il proprio albero cominciò a togliere un rametto dopo l’altro.
Ogni tanto si fermava e, facendosi schermo con la mano, gridava a Beckett seduto laggiù in fondo al buio della platea: adesso va meglio, no?
È perfetto, diceva Beckett. Adesso va proprio bene. Un momento ancora, diceva Giacometti. Aspetta. Spezzò altri rametti. E così?
Be’, così è perfetto.
Aspetta. Ecco.
Quando Giacometti fu soddisfatto, dell’albero era rimasto soltanto l’esile tronco.
Dalla platea, dove i due vi si trovarono per fumare insieme, si vedeva una cosa striminzita e storta, una specie di niente della natura che a loro sembrò l’ideale.
Brano tratto da Giorgio Soavi Il quadro che mi manca
Garzanti Editore, 1986, poi Johan & Levi, 2022.
Aspettando Godot di Samuel Beckett, Teatro Odeon di Parigi, 1961. Foto di Roger Pic © Fondation Giacometti
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